Trent’anni fa cambiava la politica italiana. Il 18 gennaio finiva, concretamente, la cinquantennale esperienza della Democrazia Cristiana, con la contemporanea nascita del Centro Cristiano Democratico di Casini e Mastella e il Partito popolare di Martinazzoli. Il 26 gennaio, il famoso discorso della discesa in campo di Silvio Berlusconi, con quell’ “Italia è il Paese che amo” rimasto nella memoria di questo Paese. Con giudizi molto diversi su come quest’amore si sia poi tradotto o meno in azione politica.
Finiva la prima repubblica, il mondo di Yalta. Nasceva l’Italia di un finto bipolarismo, poi sepolto dalla valanga populista grillina, nel 2013.
Di quel passaggio, epocale, figlio della fine del comunismo, di Tangentopoli, del venir meno del dogma dell’unità politica dei cattolici, resta comunque un fatto caratterizzante la forma partito: il leaderismo.
Il partito di plastica, come veniva dispregiativamente indicato Forza Italia, ha fatto scuola.
Oggi tutti i partiti si caratterizzano per chi li guida: Meloni, Salvini, Renzi, Conte, pure la coppia Fratoianni – Bonelli, vengono prima, nella narrazione pubblica, rispetto al progetto politico, presente o meno, dei partiti che guidano.
E il PD? Anche il “partito – comunità “corre questo rischio, se dimentica di essere aggregato di culture politiche fondative – cattolicesimo democratico, riformismo socialista, laburismo – prima che il prodotto delle primarie. E che il consenso matura su idee e proposte, prima che sulle persone.
Di questo, ritengo, si dovrà tenere conto anche nelle prossime sfide elettorali. Che sono l’unico, vero strumento legittimato a misurare la fiducia popolare su una proposta politica.